martedì 19 aprile 2011

Verdi, colonna sonora del Risorgimento

Garibaldi che, prima di imbarcarsi con i Mille, intona arie di Mercadante con la sua bella voce baritonale; Cavour che, appreso della dichiarazione di guerra austriaca che dà l'avvio alla seconda guerra d'indipendenza, canta a squarciagola “Di quella pira/L'orrendo foco”; Giuseppe Mazzini che, per riprendere il filo del suo progetto politico dopo i fallimenti nei moti degli anni '30, scrive una Filosofia della musica dove auspica l'avvento di un Nume ignoto capace di portare a compimento la trasformazione del melodramma da arte aulica ed elitaria a opera popolare e nazionale. Sono solo dettagli, certo, nell'insieme degli eventi risorgimentali; ma dettagli che, con l'immediatezza di una tranche de vie o l'evidenza di una esemplarità didascalica, ci rammentano come il felice esito del Risorgimento non sia stato solo il risultato di abili manovre politiche e fortunate (a volte fortunose) azioni militari: se gli ideali di libertà e indipendenza divennero comune sentire per un sempre più ampio numero di uomini e donne della penisola, fu anche e soprattutto per il sedimentarsi nella mente e nel cuore degli italiani di un insieme di valori che le arti coeve propugnavano con entusiasmo e convinzione. E in particolare fu il melodramma il veicolo privilegiato nella divulgazione di una ideologia patriottica, sia per la centralità del teatro musicale in un Paese in cui la letteratura era ancora fenomeno elitario, sia per l'oggettiva affinità tra gli intrecci di tante Opere e alcuni dei punti essenziali di quel “discorso nazionale” individuato e riassunto dallo storico Alberto Mario Banti nella triade Parentela, Santità, Onore.
Il teatro verdiano è con tutta evidenza il culmine del processo che possiamo definire di “politicizzazione” del melodramma, nel senso di una tacita intesa tra pubblico e autori in un gioco di similitudini e di più o meno esplicite allusioni nel quale non vi era frase o situazione melodrammatica che non si prestasse a essere interpretata come esortazione a un pugnace patriottismo. L'estrema sensibilità per lo spirito dei tempi, insieme alla sincera condivisione degli ideali risorgimentali, permisero a Verdi di cogliere i diversi umori, le speranze e le delusioni, la fiducia e la disperazione che le mutevoli vicissitudini della nostra epopea nazionale di volta in volta suscitavano, così che, dopo i furibondi ardori guerreschi e gli struggenti aneliti alla libertà perduta presenti nelle opere del periodo fino al 1849, negli anni successivi, segnati dalla paziente diplomazia cavouriana, troviamo lavori più maturi e riflessivi, da “gran tessitore” di intrecci perfettamente condotti verso un risolutivo punto culminante; e dopo la proclamazione del Regno, negli anni della “questione romana”, ecco la disincantata analisi dei rapporti tra potere temporale e potere religioso del Don Carlo; e, onde fosse ben chiaro che si era disposti a tutto, ecco anche le grevi e bellicose “Arie di reclutamento” di Preziosilla.



L'antologia verdiana di questa sera, impaginata appositamente in occasione della mostra “Hayez nella Milano di Manzoni e Verdi”, evidenzia, nel contesto di una cronologia musicale parallela alle vicende del Risorgimento, alcuni dei punti di contatto che avvicinarono la musica di Verdi a Francesco Hayez e ad Alessandro Manzoni. Tre i melodrammi verdiani dai cui soggetti già Hayez aveva preso spunto: I Lombardi alla prima Crociata (1843), I Due Foscari (1844), e i Vespri Siciliani (1855). Ad aprire il concerto, con lampante intento apotropaico, la trascrizione per pianoforte di Franz Liszt della preghiera di Giselda dal primo atto dei Lombardi,“Salve Maria”; nelle intenzioni di Verdi e del librettista Solera l'incipit avrebbe dovuto essere, con più icastica semplicità, Ave Maria”; la rettifica fu imposta dalla bigotta censura austriaca, che non gradiva si declamassero parole della liturgia cattolica sui peccaminosi palcoscenici di un teatro. Quarantaquattro anni dopo, nell'Italia libera, unita e laica, Verdi e Boito poterono scrivere per Desdemona una “Ave Maria” senza problemi di censura, così che ai detrattori del Risorgimento possiamo almeno obiettare che poter chiamare le cose con il loro nome è pur sempre un progresso.

Ascolteremo in trascrizione pianistica anche alcuni brani dai Due Foscari, assemblati in una Fantasia brillante da Adolfo Fumagalli, pianista di successo nella Milano di Verdi, Hayez e Manzoni, coccolato dai salotti della nobiltà meneghina, stimato dallo stesso Liszt che lo definì artista “di prim'ordine”; un astro nascente, insomma, che fu invece sfortunata meteora per una malattia che lo stroncò a soli ventotto anni.

Dai Vespri siciliani si è scelta la seconda delle tre Arie di Elena, una palpitante cantilena di ascendenze schubertiane (impossibile non notare la somiglianza con il Lied Ständchen) che esprime il tormento di una donna divisa tra le ragioni del cuore e i doveri verso la Patria.



I rapporti di Verdi con Manzoni, al di là della personale conoscenza avvenuta tramite la comune amicizia con la contessa Clara Maffei, sono soprattutto segnati da ciò che non avvenne e avrebbe potuto avvenire; alludo, naturalmente, al mancato incontro della musica di Verdi con il romanzo manzoniano, evento che indubbiamente sarebbe stato un vero culmine nella storia artistica dell'800 italiano. Siccome però la storia, neanche quella artistica, si è mai fatta con i se, è inutile indagare i motivi di tale “atto mancato”; stiamo contenti al quia, e per avere un esempio di ciò che sarebbe potuto nascere da tale incontro al vertice appaghiamoci dell'intensità di “Sgombra, o gentil”, breve Romanza che Verdi scrisse nel 1858 come dono per l'amico Melchiorre Delfico, musicando sei versi dell'Adelchi. Ultimo, postumo punto d'incontro tra i due Grandi, è il Requiem che Verdi scrisse nel 1874 per celebrare il primo anniversario della morte di Manzoni, nobile e possente testimonianza di come il non credente Verdi abbia saputo rendere omaggio alla fede manzoniana. Del Requiem verrà eseguito l'Agnus dei, nella trascrizione per pianoforte o armonium di Franz Liszt.



E sempre di Liszt sono le altre trascrizioni e parafrasi in programma: dal Quartetto del Rigoletto, dal Miserere dal Trovatore, dalla scena dell'autodafé del Don Carlo. Franz Liszt, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita, è legato a questo concerto non solo per le sue sontuose trascrizioni verdiane, bensì anche per essere stato uno dei più autorevoli estimatori dei pianoforti Érard, due esemplari dei quali, provenienti dalla collezione Giulini, utilizzeremo per il nostro concerto. Anche Verdi ebbe un Érard, così come Rossini, Wagner e tanti altri. Ne ebbe uno anche Adolfo Fumagalli, che lo ricevette in dono da Érard in persona, in segno di stima e ammirazione.

Verdi, che non era certo pianista virtuoso (fin troppo noto l'episodio della sua bocciatura all'ammissione come allievo di pianoforte presso il Conservatorio di Milano: prima di scagliare l'ennesima pietra sui professori che l'esaminarono, chiediamoci anche come se la cavasse alla tastiera il Bussetano), arrivò al moderno ed efficiente Érard solo dopo il 1870; in precedenza componeva su un fortepiano viennese un po' d'antan, di Johann Fritz, di cui anche la inesauribile collezione Giulini ci fornirà un esempio questa sera; la voce delicata e tintinnante di questo raro, prezioso strumento (tasti bianchi in madreperla, tasti neri in tartaruga, un brivido da Re Mida ci percorre suonandolo) intonerà gli unici due brani scritti da Verdi per il solo pianoforte: un Valzer, reso celebre nel XX secolo da Nino Rota che lo utilizzò come colonna sonora per il Gattopardo di Luchino Visconti; e una Romanza senza parole, datata 1844, probabilmente omaggio galante del giovane Verdi a una nobildonna romana.



Come ben disse D'Annunzio, Verdi fu colui che “pianse ed amò per tutti”. Ma seppe anche sorridere: e a riprova di questo, non potendo radunare questa sera l'intero cast di Falstaff per cantare “Tutto nel mondo è burla”, proporremo lo Stornello, romanza da camera del 1869 su dei versi maliziosi e anticonformisti che ci rivelano le frequentazioni “scapigliate” di Verdi anche prima delle collaborazioni con Arrigo Boito. L'autore del testo preferì restare anonimo, forse per prender le distanze da pose, per l'epoca, un po' troppo disinvolte: in quattordici endecasillabi (si chiama Stornello, ma in realtà è un Sonetto) una spigliata voce femminile enuncia i suoi princìpi di donna emancipata:



Tu dici che non m'ami... anch'io non t'amo...

Dici non vi vuoi ben, non te ne voglio.

Dici ch'a un altro pesce hai teso l'amo.

Anch'io in altro giardin la rosa coglio.


Ma non credo che l'intrigante Stornello scandalizzasse alcuno: insomma, l'Italia era fatta, bisognava pur fare gli italiani...

Luca Schieppati

1 commento:

giacom ha detto...

ciao, ti ho rubato i versi alla fine, spero non ti offenderai :)