martedì 19 aprile 2011

Ora, elabora! -Note per un Amico

Si può parlare dell'indicibile? Oppure è meglio limitarsi a obiettivi, quasi distaccati resoconti dei fatti e, seguendo l'esempio di Amleto, lasciare che “il resto” sia “silenzio”1? Se anche accettiamo l'elusiva massima amletica e manteniamo latente e sottinteso quel margine inemendabile di incomprensibilità che la condizione umana porta con sé, evitando così – speriamo - di cadere nel banale, nel retorico, o peggio ancora nella autocommiserazione sotto specie di commemorazione; ciononostante, fuori da quel “resto” rimane comunque inappagato un bisogno insopprimibile, un prezzo da pagare al nostro dover sopravvivere facendo i conti con una assenza, con un lutto che, come ci spiegano gli psicoanalisti, in qualche modo dobbiamo riuscire a elaborare. Elaborare, operazione che dovrebbe trasformare le cose in altro da quel che sono inizialmente, auspicabilmente migliorandole. Nel caso di un lutto, stante l'evidenza di non poter agire sull'oggetto di esso, dobbiamo concentrare il nostro lavoro su di noi, ovvero sul soggetto che il lutto percepisce. Può l'arte, e la musica in particolare, aiutarci in questo? Direi senz'altro di sì, e il programma di questo concerto vorrebbe proprio essere un tentativo di elaborare in musica il nostro lutto perché Claudio non è più con noi.
All'inizio c'è il Lamento. Non si può chiamare il lamento una elaborazione: è uno sfogo che sorge immediato e spontaneo, quasi senza passare dalla nostra coscienza; ma nel momento stesso in cui questo lamento trova una forma, un melos e un metro, esce da un irriflesso stato di natura per aprirsi alla possibilità di una più ampia condivisione del dolore, fino a trasformare la contingenza che ha dato luogo al pianto nell'immagine di qualunque infelicità, di qualunque lutto, così che nei melismi del Dido's Lament di Henry Purcell noi avvertiamo l'incombere di un Fato che non è più solo quello della regina abbandonata, e nel ritmo di sarabanda che lo sostiene riconosciamo il passo che accompagna anche noi verso la stessa ultima meta.

Il lamento, pianto appena modulato in canto, è momento essenzialmente lirico; l'elaborazione vera e propria richiede piuttosto una logica narrativa, una costruzione più complessa, una sovrastruttura che ci consenta di allontanarci dal senso proprio di certe parole che ci straziano solo a pensarle per avventurarci in metafore, allegorie, simboli, che pur non nascondendo, o per lo meno non completamente, la loro origine, diano però modo di affermare e negare a un tempo, insomma di raccontarci e raccontare una storia che mentre appaga il desiderio di ricordare, sappia anche molcere il dolore del ricordo. In tutto ciò soccorrono gli artisti, che nelle loro creazioni sanno forgiare le materie più incandescenti dando ad esse una forma, una apparenza che ce le rende sopportabili, come uno specchio che ci consente di fissare una eclissi di sole senza bruciare gli occhi. Una delle metafore più ricorrenti per raccontare una assenza è da sempre quella del viaggio: partire è un po' morire, dice la saggezza popolare; e con pietose bugie ci siamo spesso illusi che, simmetricamente, morire sia un po' partire, un arrivederci e non un addio. Tra i più commoventi esempi di questa voluta ambiguità tra perdite momentanee e definitive è da annoverare senz'altro il di Johann Sebastian Bach; scritto per salutare il fratello Johann Jakob in partenza per la Svezia, raggiunge nell'Adagissimo del terzo movimento una espressione di così intenso dolore da farci pensare a come ogni saluto a una persona cara potrebbe sempre essere l'ultimo. Salvo poi, nei tre movimenti conclusivi, e soprattutto nella contagiosamente energetica “Fuga all'imitazione della cornetta del postiglione”, indicarci la possibilità di trovare in una ben temperata letizia la via per conseguire un ottimistico amor fati.

L'ideale sarebbe poter adempiere l'esortazione che Didone rivolge a Belinda2: “Ricordami, ma dimentica il mio destino!”, potendo dunque contare su una memoria selettiva, capace di mantenere intatto il pensiero dei giorni felici, lasciando svanire tra le ombre del mai accaduto ogni evento funesto. Purtroppo, si sa, non è possibile fare ciò a comando, con un semplice impulso della volontà. Ecco allora che l'Oblio può soccorrerci; ma se la Memoria fin dall'antichità si è saputa dotare di tecniche3 di ricercata raffinatezza, l'oblio è per sua natura un qualcosa di sfuggente e del tutto involontario; ci hanno provato in tanti, da Temistocle in poi, a 4 trovare un metodo efficace per dimenticare i ricordi sgraditi, ma a tutt'oggi non si sono visti grandi risultati, e anche il pro-memoria di Immanuel Kant riguardo alla categorica intenzione di dimenticare un famulo4 venutogli a noia è citato più come brillante aneddoto sulle eccentricità di una mente sublime che come esempio di una oblio-tecnica5 ancora tutta da inventare. Diciamo che se ricordare è un'arte, dimenticare probabilmente è un dono che ci possono arrecare solo gli Dei, come l'Amor Lethaeus dei Romani; o farmaci e pozioni, come quelli somministrati dai Lotofagi e da Circe nell'Odissea; o ancora la Provvidenza divina, che immerge Dante nel Lete per farlo ascendere al Paradiso purificato anche dalla sola memoria dei peccati terreni. Ma se vogliamo evitare di affidare la nostra preziosa lucidità sia a farmaci e pozioni, indulgendo al massimo a modiche quantità del dono di Bacco; sia a improbabili speranze ultramondane, è bene rassegnarsi all'evidenza che l'oblio del dolore arriverà, se mai arriverà, senza alcuna possibilità da parte nostra di favorirlo; al contrario, è più facile prevedere che ossessioni, idee fisse, pensieri e sogni ricorrenti spadroneggeranno nella malinconia del nostro animo. E la musica è sicuramente il linguaggio ideale per dar luogo a un pensiero dai frequenti ritorni su se stesso, in una concezione del tempo più ciclica che lineare; che si tratti di un Tema di Fuga o di Rondò, di un Leit-Motiv o di una serie dodecafonica, il principio comune è quello di sviluppare un oggetto sonoro nel modo più esauriente possibile, mantenendone al contempo la riconoscibilità; così avviene anche nella Sinfonia Fantastica di Hector Berlioz, il cui Tema ricorrente, dall’Autore stesso chiamato Idée fixe, conserva la propria languida ossessività anche nelle molteplici e ingegnose mutazioni cui è sottoposto. Liszt, già trascrittore dell'intera Fantastique, ne “L'Idée fixe” trasforma il Tema in un ampio Notturno dalle movenze ora sognanti, ora appassionate.

Tanto alla musica è consono esprimere eterni ritorni ed ossessioni, quanto le è estraneo l'oblio. E non solo per gli scaramantici auspici di ogni interprete impegnato nel far rivivere a memoria uno spartito; anche e soprattutto perchè lo stesso realizzarsi della musica nel tempo, il suo gioco di rimandi, allusioni, ripetizioni, elaborazioni, non è altro che una mnemotecnica particolarmente efficace per contemplare in un presente sincronico un materiale sonoro esposto diacronicamente6. A maggior ragione, ci colpiscono e ci emozionano brani come le di Liszt, musica che appare e scompare, indugia, si ferma, poi riprende, senza alcuna logica discorsiva, come gesti sonori compiuti in stato di ipnosi, ombre esangui di Valzer ammiccanti a un che di già inteso ma incapaci di trovare espressione compiuta, con l’effetto di un déjà vu che insieme c'intriga e ci lascia nell'inquietudine. O forse è vero il contrario, e anzi è la musica in sé, qualunque musica, ad esprimere l'oblio, o per lo meno a essere in grado di arrecarlo, come una droga oppiacea il cui principio attivo è una Bellezza che obbliga a non avere altro pensiero al di fuori della sua contemplazione. Questa possibile, cercata e temuta a un tempo, “narcosi estetica” è il senso del Lied Lorelei, in cui Heine, sotto l'immagine della “favola dei tempi antichi” della sirena Lorelei che induce col suo canto i marinai del Reno al naufragio, ci illustra, perfettamente assecondato dalle ambigue7 sonorità lisztiane, le tentazioni e i pericoli di una art pour l'art che divenga cura esclusiva nell'esistenza di estenuate, ipersensibili anime d'artista.



Sicuramente un dono, se ci libera dall'infelicità del passato; ma quando l’oblio induce a negare la realtà del presente il dono diviene insidioso, un sintomo nevrotico di quanto rimosso dalla coscienza. Nel Lied Allerseelen, felice connubio tra la poesia di Hermann von Gilm e la musica di Richard Strauss, le nostalgiche rimembranze di un giorno dei morti assumono i tratti di una allucinazione isterica, in cui la presenza della persona amata e scomparsa è evocata da ogni minimo dettaglio, il profumo delle resede, il colore degli aster, il premere complice di una mano sull'altra, e imposta alla nostra emotività dall'armonia straussiana, le cui successioni ora arcane, ora veementi conducono a una perorazione di tale slancio retorico da annichilire qualunque dubbio riguardo alla realtà di quanto rappresentato. Stesso discorso per il Lied Morgen, nel quale però Strauss, su versi questa volta di John Henry Mackay, propone come rimedio all'infelicità del presente non più un fideistico “qui ed ora”, bensì un domani immaginifico in cui una cullante, nirvanica melodia strumentale viene contrappuntata dalla estatica, spesso monotona (nel senso letterale di “su un'unica nota”) recitazione della voce cantante. Zueignung (il testo è di nuovo di von Gilm), che conclude il possente gruppetto di tre Lieder straussiani impaginati per questa occasione, ha carattere diverso, ma giustifica la sua robusta presenza con il titolo, una accorata “Dedica” da noi rivolta all'amico che ci manca e ci mancherà per sempre.

Ma concludere il nostro percorso musicale tra memoria e oblio con la pur focosa gravità di Richard Strauss poco sarebbe piaciuto a Claudio, spirito ironico e disincantato quant’altri mai. Preferiamo dunque suggellare il concerto con il mirabile equilibrio della musica di Mozart. Si è già accennato alla capacità della Forma di sublimare, risolvendoli in bellezza, quei moti dell'animo la cui intensità ci sarebbe insopportabile. E gli esempi migliori di ciò li troviamo senz’altro in quella vera età dell'oro che fu il classicismo musicale, perfetta fusione tra immediata comprensibilità del linguaggio, dovizia di contenuti intellettuali ed emotivi e, aspetto non meno importante, costante attenzione alle ragioni di un sano edonismo. In più, Mozart è sempre e comunque una medicina per il nostro animo, come appurato da seri e approfonditi studi di musicoterapia (“effetto Mozart” ha chiamato l'efficacia della musica del salisburghese per la cura delle patologie nervose, e più in generale per potenziare le facoltà creative della mente nell'infanzia, il medico-musicofilo Alfred Tomatis8), e l'Aria da concerto con pianoforte obbligato , di sfolgorante, olimpica bellezza, è una rappresentazione illuministicamente serena e didascalica delle emozioni multiformi e ambivalenti che il distacco da una persona cara suscita in noi. L'Aria fu scritta per la cantante Anna Selina “Nancy” Storace, le cui virtù non solo musicali pare suscitassero in Mozart i più appassionati slanci. La prima esecuzione, con la dedicataria protagonista e Wolfy al pianoforte, ebbe luogo a Vienna il 23 febbraio 1787, dopo di che Nancy partì per Londra e Amadeus, che sarebbe morto quattro anni più tardi, non la rivide mai più. Mai più...ma sarà vero? Forse, chissà dove, chissà quando, ci si rivedrà, o vagando tra gli asfodeli, o scorazzando per i campi elisi (ma non lacrimando nel Tartaro, s'intende). Forse basta smettere di sillogizzare, e immaginare invece che da luoghi indefiniti e senza tempo, con un’allegria che fin che siamo qui non riusciremo mai a concepire, un coro di voci finalmente libere da preoccupazioni ci stia rivolgendo le spensierate note dei Beatles: “I don't know why/you say goodbye, I say hello!”9

Luca Schieppati



1 “The rest is silence”, W. Shakespeare, Hamlet, V,2. Sono le ultime parole pronunciate da Amleto.

2 Così il librettista Nahum Tate anglicizzò la virgiliana Anna.

3 Sulla storia della mnemotecnica vedi, in particolare: F. Yates: L'Arte della Memoria (Einaudi, 1966)

4 “Il nome di Lampe va assolutamente dimenticato”, appunto scritto da Kant per se stesso negli ultimi anni della sua vita in seguito a un litigio con il domestico Lampe; su questo episodio, così come sul Temistocle plutarchiano citato poco prima, vedi di Weinrich: “Lete, arte e critica dell'Oblio” (Il Mulino,1999)

5 Cfr. al riguardo U. Eco, il capitolo “La vertigine del labirinto e l'Ars Oblivionalis” in “Dall'albero al labirinto” (Bompiani, 2007); un saggio di Eco sulla letotecnica era già apparso nel 1987 sulla rivista KOS), dove si nega, con solidissimi argomenti logici, la possibilità di una vera “Ars oblivionalis”; e vedi anche la confutazione, dotta ed elegante ma forse meno convincente, di H. Weinrich nel già citato “Lete , arte e critica dell'oblio”

6 “La musica è una macchina per sopprimere il tempo”, secondo la bellissima definizione di C. Lévi-Strauss ne “Il crudo e il cotto” (Il Saggiatore, 1966)

7 Vien da dire tristaneggianti; ma il Tristan è del 1859, Lorelei del 1856, così che casomai è Wagner a esser loreleizzante…

8 Cfr. A. Tomatis, Perchè Mozart? Ibis, 1991

9 “Non capisco perchè tu dici addio; io dico ciao!” Lennon/McCartney, Hello, goodbye! 1967


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