martedì 19 aprile 2011

Verdi, colonna sonora del Risorgimento

Garibaldi che, prima di imbarcarsi con i Mille, intona arie di Mercadante con la sua bella voce baritonale; Cavour che, appreso della dichiarazione di guerra austriaca che dà l'avvio alla seconda guerra d'indipendenza, canta a squarciagola “Di quella pira/L'orrendo foco”; Giuseppe Mazzini che, per riprendere il filo del suo progetto politico dopo i fallimenti nei moti degli anni '30, scrive una Filosofia della musica dove auspica l'avvento di un Nume ignoto capace di portare a compimento la trasformazione del melodramma da arte aulica ed elitaria a opera popolare e nazionale. Sono solo dettagli, certo, nell'insieme degli eventi risorgimentali; ma dettagli che, con l'immediatezza di una tranche de vie o l'evidenza di una esemplarità didascalica, ci rammentano come il felice esito del Risorgimento non sia stato solo il risultato di abili manovre politiche e fortunate (a volte fortunose) azioni militari: se gli ideali di libertà e indipendenza divennero comune sentire per un sempre più ampio numero di uomini e donne della penisola, fu anche e soprattutto per il sedimentarsi nella mente e nel cuore degli italiani di un insieme di valori che le arti coeve propugnavano con entusiasmo e convinzione. E in particolare fu il melodramma il veicolo privilegiato nella divulgazione di una ideologia patriottica, sia per la centralità del teatro musicale in un Paese in cui la letteratura era ancora fenomeno elitario, sia per l'oggettiva affinità tra gli intrecci di tante Opere e alcuni dei punti essenziali di quel “discorso nazionale” individuato e riassunto dallo storico Alberto Mario Banti nella triade Parentela, Santità, Onore.
Il teatro verdiano è con tutta evidenza il culmine del processo che possiamo definire di “politicizzazione” del melodramma, nel senso di una tacita intesa tra pubblico e autori in un gioco di similitudini e di più o meno esplicite allusioni nel quale non vi era frase o situazione melodrammatica che non si prestasse a essere interpretata come esortazione a un pugnace patriottismo. L'estrema sensibilità per lo spirito dei tempi, insieme alla sincera condivisione degli ideali risorgimentali, permisero a Verdi di cogliere i diversi umori, le speranze e le delusioni, la fiducia e la disperazione che le mutevoli vicissitudini della nostra epopea nazionale di volta in volta suscitavano, così che, dopo i furibondi ardori guerreschi e gli struggenti aneliti alla libertà perduta presenti nelle opere del periodo fino al 1849, negli anni successivi, segnati dalla paziente diplomazia cavouriana, troviamo lavori più maturi e riflessivi, da “gran tessitore” di intrecci perfettamente condotti verso un risolutivo punto culminante; e dopo la proclamazione del Regno, negli anni della “questione romana”, ecco la disincantata analisi dei rapporti tra potere temporale e potere religioso del Don Carlo; e, onde fosse ben chiaro che si era disposti a tutto, ecco anche le grevi e bellicose “Arie di reclutamento” di Preziosilla.



L'antologia verdiana di questa sera, impaginata appositamente in occasione della mostra “Hayez nella Milano di Manzoni e Verdi”, evidenzia, nel contesto di una cronologia musicale parallela alle vicende del Risorgimento, alcuni dei punti di contatto che avvicinarono la musica di Verdi a Francesco Hayez e ad Alessandro Manzoni. Tre i melodrammi verdiani dai cui soggetti già Hayez aveva preso spunto: I Lombardi alla prima Crociata (1843), I Due Foscari (1844), e i Vespri Siciliani (1855). Ad aprire il concerto, con lampante intento apotropaico, la trascrizione per pianoforte di Franz Liszt della preghiera di Giselda dal primo atto dei Lombardi,“Salve Maria”; nelle intenzioni di Verdi e del librettista Solera l'incipit avrebbe dovuto essere, con più icastica semplicità, Ave Maria”; la rettifica fu imposta dalla bigotta censura austriaca, che non gradiva si declamassero parole della liturgia cattolica sui peccaminosi palcoscenici di un teatro. Quarantaquattro anni dopo, nell'Italia libera, unita e laica, Verdi e Boito poterono scrivere per Desdemona una “Ave Maria” senza problemi di censura, così che ai detrattori del Risorgimento possiamo almeno obiettare che poter chiamare le cose con il loro nome è pur sempre un progresso.

Ascolteremo in trascrizione pianistica anche alcuni brani dai Due Foscari, assemblati in una Fantasia brillante da Adolfo Fumagalli, pianista di successo nella Milano di Verdi, Hayez e Manzoni, coccolato dai salotti della nobiltà meneghina, stimato dallo stesso Liszt che lo definì artista “di prim'ordine”; un astro nascente, insomma, che fu invece sfortunata meteora per una malattia che lo stroncò a soli ventotto anni.

Dai Vespri siciliani si è scelta la seconda delle tre Arie di Elena, una palpitante cantilena di ascendenze schubertiane (impossibile non notare la somiglianza con il Lied Ständchen) che esprime il tormento di una donna divisa tra le ragioni del cuore e i doveri verso la Patria.



I rapporti di Verdi con Manzoni, al di là della personale conoscenza avvenuta tramite la comune amicizia con la contessa Clara Maffei, sono soprattutto segnati da ciò che non avvenne e avrebbe potuto avvenire; alludo, naturalmente, al mancato incontro della musica di Verdi con il romanzo manzoniano, evento che indubbiamente sarebbe stato un vero culmine nella storia artistica dell'800 italiano. Siccome però la storia, neanche quella artistica, si è mai fatta con i se, è inutile indagare i motivi di tale “atto mancato”; stiamo contenti al quia, e per avere un esempio di ciò che sarebbe potuto nascere da tale incontro al vertice appaghiamoci dell'intensità di “Sgombra, o gentil”, breve Romanza che Verdi scrisse nel 1858 come dono per l'amico Melchiorre Delfico, musicando sei versi dell'Adelchi. Ultimo, postumo punto d'incontro tra i due Grandi, è il Requiem che Verdi scrisse nel 1874 per celebrare il primo anniversario della morte di Manzoni, nobile e possente testimonianza di come il non credente Verdi abbia saputo rendere omaggio alla fede manzoniana. Del Requiem verrà eseguito l'Agnus dei, nella trascrizione per pianoforte o armonium di Franz Liszt.



E sempre di Liszt sono le altre trascrizioni e parafrasi in programma: dal Quartetto del Rigoletto, dal Miserere dal Trovatore, dalla scena dell'autodafé del Don Carlo. Franz Liszt, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita, è legato a questo concerto non solo per le sue sontuose trascrizioni verdiane, bensì anche per essere stato uno dei più autorevoli estimatori dei pianoforti Érard, due esemplari dei quali, provenienti dalla collezione Giulini, utilizzeremo per il nostro concerto. Anche Verdi ebbe un Érard, così come Rossini, Wagner e tanti altri. Ne ebbe uno anche Adolfo Fumagalli, che lo ricevette in dono da Érard in persona, in segno di stima e ammirazione.

Verdi, che non era certo pianista virtuoso (fin troppo noto l'episodio della sua bocciatura all'ammissione come allievo di pianoforte presso il Conservatorio di Milano: prima di scagliare l'ennesima pietra sui professori che l'esaminarono, chiediamoci anche come se la cavasse alla tastiera il Bussetano), arrivò al moderno ed efficiente Érard solo dopo il 1870; in precedenza componeva su un fortepiano viennese un po' d'antan, di Johann Fritz, di cui anche la inesauribile collezione Giulini ci fornirà un esempio questa sera; la voce delicata e tintinnante di questo raro, prezioso strumento (tasti bianchi in madreperla, tasti neri in tartaruga, un brivido da Re Mida ci percorre suonandolo) intonerà gli unici due brani scritti da Verdi per il solo pianoforte: un Valzer, reso celebre nel XX secolo da Nino Rota che lo utilizzò come colonna sonora per il Gattopardo di Luchino Visconti; e una Romanza senza parole, datata 1844, probabilmente omaggio galante del giovane Verdi a una nobildonna romana.



Come ben disse D'Annunzio, Verdi fu colui che “pianse ed amò per tutti”. Ma seppe anche sorridere: e a riprova di questo, non potendo radunare questa sera l'intero cast di Falstaff per cantare “Tutto nel mondo è burla”, proporremo lo Stornello, romanza da camera del 1869 su dei versi maliziosi e anticonformisti che ci rivelano le frequentazioni “scapigliate” di Verdi anche prima delle collaborazioni con Arrigo Boito. L'autore del testo preferì restare anonimo, forse per prender le distanze da pose, per l'epoca, un po' troppo disinvolte: in quattordici endecasillabi (si chiama Stornello, ma in realtà è un Sonetto) una spigliata voce femminile enuncia i suoi princìpi di donna emancipata:



Tu dici che non m'ami... anch'io non t'amo...

Dici non vi vuoi ben, non te ne voglio.

Dici ch'a un altro pesce hai teso l'amo.

Anch'io in altro giardin la rosa coglio.


Ma non credo che l'intrigante Stornello scandalizzasse alcuno: insomma, l'Italia era fatta, bisognava pur fare gli italiani...

Luca Schieppati

Servi, Padroni o Vesponi?

Dura la vita dei Padroni; quanta fatica, quanta responsabilità nell'essere a un tempo guida e deterrente, bastone e carota, esempio da emulare sebbene irraggiungibile. Pensate, quante difficoltà, quanti dispiaceri, in queste vite votate al lavoro (degli altri) e al buon funzionamento di insiemi complessi (famiglie, aziende, su su fino a società e stati) che, è evidente, senza di loro crollerebbero come castelli di carte, o meglio si affloscerebbero come maionesi mal frustate. Come non capirli, dunque, i Padroni, se alle volte cedono a qualche tentazione, se assecondano qualche debolezza? Niente di più naturale, di più umano. E, pur non avendo alcuna esperienza al riguardo, alieno come sono da ogni brama di comando, ho come il sospetto che la tentazione più grande per chi è Padrone sia quella di poter divenire come i propri Servi, cioè i veri privilegiati, persone senza pensieri o preoccupazioni, perchè qualcuno ha già provveduto a inserire le loro vite in un Cosmo ordinato, rotelle in un ingranaggio, o chicchi di riso nel risotto che altri, i Padroni appunto, mangeranno; immagino con che gioia un Padrone si abbandonerebbe alla deriva di una obbedienza cieca e animalesca, per provare finalmente quella rilassante sensazione di spensieratezza, quella sana allegria senza retrogusti, da assaporare nella pienezza di una vita tutta assorbita dal presente, anziché dispersa in magnifici e progressivi progetti da realizzare, o meglio da far realizzare, in un futuro prossimo o remoto da ignave, se non riottose, risorse umane. Ma come fare? In che modo un Padrone può realizzare un simile inespresso desiderio senza apparire insano di mente? Ma naturalmente divenendo Servo d'amore, ovvero schiavo tra le debolezze di quella che più comprendiamo, che più perdoniamo e spesso anche invidiamo. E, meglio ancora, Servo amoroso di chi a qualunque titolo sia stato suo servitore: che emozione, che ebbrezza allora, dimostrare il proprio potere cedendolo a chi è solito obbedirci! Adoperare tutta la propria esperienza e competenza nel dominio per farsi meglio dominare, approntarsi un proprio personale contrappasso già qui sulla terra, aggiungendo alle altrimenti banali e ripetitive faccende erotiche anche quel senso di onnipotenza che dà il poter dire: “Mi sono rovinato con le mie stesse mani”! Ecco, credo che questa attrazione tra due ruoli che si vorrebbero contrapposti e inconciliabili, descritta con un'enfasi scherzosa che spero mi si perdonerà (soprattutto perché, con un argomento simile, a parlar seriamente avrei rischiato di inoltrarmi in un impervio côté sadiano-intellettual-psicanalitico del quale io per primo non mi sarei perdonato), sia una delle possibili chiavi di lettura dell'operina che oggi mettiamo in scena, oltre che, ça va sans dire, di alcune poco edificanti vicende di cronaca. Attrazione reciproca, s'intende, giacché nel mentre che il Padrone agogna lo stato di Servo, il Servo (o la Serva) anelano a farsi padroni. Così che, dopo poche battute della storiella di Serpina che da serva diviene padrona riuscendo a farsi sposare dal vecchio brontolone Uberto, capiamo che i due ruoli sono del tutto intercambiabili, e che entrambi rientrano in quel retaggio umano, troppo umano che condividiamo con tutti i nostri simili. Alla luce di tale valenza esemplare, archetipica del pur semplicissimo intreccio, ci siamo quindi permessi di attualizzare, nelle essenziali scene e negli abiti degli interpreti, l'azione immaginata dal librettista Gennarantonio Federico, sicuri che nulla andrà perso della sua intelligibilità. Ma se c’è un particolare che più connota la nostra versione rispetto ad altre non è certo questa ambientazione moderna, ormai pressoché abituale per tutto il repertorio operistico; bensì, piuttosto, il rilievo dato a Vespone, personaggio che non canta né parla, nel libretto indicato come “servo di Uberto” ma capace di far valere la propria individualità facendosi complice di Serpina nell'indurre il riluttante (ma non troppo) padrone al matrimonio. E’ un’idea scenica che, nata dall’intenzione di affidare più spazio possibile alle esilaranti trovate del Freakclown che sosterrà la parte, si è man mano imposta anche come efficace modo di suggerire la possibilità, vorrei dire la necessità, di una “terza via” tra i due ruoli eponimi: troppo a lungo ci si è riconosciuti e divisi in Servi e Padroni; talora, beffa che si è unita al danno, anche ipocritamente mascherando la cruda realtà di tali funzioni con travestimenti linguistici, come se la political correctness potesse mai mutare la brutale sostanza delle cose. E se cominciassimo invece tutti a voler essere un po' Vesponi, incapaci sia di servire che di comandare, allegramente anarchici, irresponsabilmente ridanciani? Forse saremmo più felici e faremmo meno danni al prossimo; e sicuramente aggiungeremmo alla causa della felicità umana una di quelle risate libere e sonore che, prima o poi, dovranno pur seppellire qualcuno.
Luca Schieppati


Ora, elabora! -Note per un Amico

Si può parlare dell'indicibile? Oppure è meglio limitarsi a obiettivi, quasi distaccati resoconti dei fatti e, seguendo l'esempio di Amleto, lasciare che “il resto” sia “silenzio”1? Se anche accettiamo l'elusiva massima amletica e manteniamo latente e sottinteso quel margine inemendabile di incomprensibilità che la condizione umana porta con sé, evitando così – speriamo - di cadere nel banale, nel retorico, o peggio ancora nella autocommiserazione sotto specie di commemorazione; ciononostante, fuori da quel “resto” rimane comunque inappagato un bisogno insopprimibile, un prezzo da pagare al nostro dover sopravvivere facendo i conti con una assenza, con un lutto che, come ci spiegano gli psicoanalisti, in qualche modo dobbiamo riuscire a elaborare. Elaborare, operazione che dovrebbe trasformare le cose in altro da quel che sono inizialmente, auspicabilmente migliorandole. Nel caso di un lutto, stante l'evidenza di non poter agire sull'oggetto di esso, dobbiamo concentrare il nostro lavoro su di noi, ovvero sul soggetto che il lutto percepisce. Può l'arte, e la musica in particolare, aiutarci in questo? Direi senz'altro di sì, e il programma di questo concerto vorrebbe proprio essere un tentativo di elaborare in musica il nostro lutto perché Claudio non è più con noi.
All'inizio c'è il Lamento. Non si può chiamare il lamento una elaborazione: è uno sfogo che sorge immediato e spontaneo, quasi senza passare dalla nostra coscienza; ma nel momento stesso in cui questo lamento trova una forma, un melos e un metro, esce da un irriflesso stato di natura per aprirsi alla possibilità di una più ampia condivisione del dolore, fino a trasformare la contingenza che ha dato luogo al pianto nell'immagine di qualunque infelicità, di qualunque lutto, così che nei melismi del Dido's Lament di Henry Purcell noi avvertiamo l'incombere di un Fato che non è più solo quello della regina abbandonata, e nel ritmo di sarabanda che lo sostiene riconosciamo il passo che accompagna anche noi verso la stessa ultima meta.

Il lamento, pianto appena modulato in canto, è momento essenzialmente lirico; l'elaborazione vera e propria richiede piuttosto una logica narrativa, una costruzione più complessa, una sovrastruttura che ci consenta di allontanarci dal senso proprio di certe parole che ci straziano solo a pensarle per avventurarci in metafore, allegorie, simboli, che pur non nascondendo, o per lo meno non completamente, la loro origine, diano però modo di affermare e negare a un tempo, insomma di raccontarci e raccontare una storia che mentre appaga il desiderio di ricordare, sappia anche molcere il dolore del ricordo. In tutto ciò soccorrono gli artisti, che nelle loro creazioni sanno forgiare le materie più incandescenti dando ad esse una forma, una apparenza che ce le rende sopportabili, come uno specchio che ci consente di fissare una eclissi di sole senza bruciare gli occhi. Una delle metafore più ricorrenti per raccontare una assenza è da sempre quella del viaggio: partire è un po' morire, dice la saggezza popolare; e con pietose bugie ci siamo spesso illusi che, simmetricamente, morire sia un po' partire, un arrivederci e non un addio. Tra i più commoventi esempi di questa voluta ambiguità tra perdite momentanee e definitive è da annoverare senz'altro il di Johann Sebastian Bach; scritto per salutare il fratello Johann Jakob in partenza per la Svezia, raggiunge nell'Adagissimo del terzo movimento una espressione di così intenso dolore da farci pensare a come ogni saluto a una persona cara potrebbe sempre essere l'ultimo. Salvo poi, nei tre movimenti conclusivi, e soprattutto nella contagiosamente energetica “Fuga all'imitazione della cornetta del postiglione”, indicarci la possibilità di trovare in una ben temperata letizia la via per conseguire un ottimistico amor fati.

L'ideale sarebbe poter adempiere l'esortazione che Didone rivolge a Belinda2: “Ricordami, ma dimentica il mio destino!”, potendo dunque contare su una memoria selettiva, capace di mantenere intatto il pensiero dei giorni felici, lasciando svanire tra le ombre del mai accaduto ogni evento funesto. Purtroppo, si sa, non è possibile fare ciò a comando, con un semplice impulso della volontà. Ecco allora che l'Oblio può soccorrerci; ma se la Memoria fin dall'antichità si è saputa dotare di tecniche3 di ricercata raffinatezza, l'oblio è per sua natura un qualcosa di sfuggente e del tutto involontario; ci hanno provato in tanti, da Temistocle in poi, a 4 trovare un metodo efficace per dimenticare i ricordi sgraditi, ma a tutt'oggi non si sono visti grandi risultati, e anche il pro-memoria di Immanuel Kant riguardo alla categorica intenzione di dimenticare un famulo4 venutogli a noia è citato più come brillante aneddoto sulle eccentricità di una mente sublime che come esempio di una oblio-tecnica5 ancora tutta da inventare. Diciamo che se ricordare è un'arte, dimenticare probabilmente è un dono che ci possono arrecare solo gli Dei, come l'Amor Lethaeus dei Romani; o farmaci e pozioni, come quelli somministrati dai Lotofagi e da Circe nell'Odissea; o ancora la Provvidenza divina, che immerge Dante nel Lete per farlo ascendere al Paradiso purificato anche dalla sola memoria dei peccati terreni. Ma se vogliamo evitare di affidare la nostra preziosa lucidità sia a farmaci e pozioni, indulgendo al massimo a modiche quantità del dono di Bacco; sia a improbabili speranze ultramondane, è bene rassegnarsi all'evidenza che l'oblio del dolore arriverà, se mai arriverà, senza alcuna possibilità da parte nostra di favorirlo; al contrario, è più facile prevedere che ossessioni, idee fisse, pensieri e sogni ricorrenti spadroneggeranno nella malinconia del nostro animo. E la musica è sicuramente il linguaggio ideale per dar luogo a un pensiero dai frequenti ritorni su se stesso, in una concezione del tempo più ciclica che lineare; che si tratti di un Tema di Fuga o di Rondò, di un Leit-Motiv o di una serie dodecafonica, il principio comune è quello di sviluppare un oggetto sonoro nel modo più esauriente possibile, mantenendone al contempo la riconoscibilità; così avviene anche nella Sinfonia Fantastica di Hector Berlioz, il cui Tema ricorrente, dall’Autore stesso chiamato Idée fixe, conserva la propria languida ossessività anche nelle molteplici e ingegnose mutazioni cui è sottoposto. Liszt, già trascrittore dell'intera Fantastique, ne “L'Idée fixe” trasforma il Tema in un ampio Notturno dalle movenze ora sognanti, ora appassionate.

Tanto alla musica è consono esprimere eterni ritorni ed ossessioni, quanto le è estraneo l'oblio. E non solo per gli scaramantici auspici di ogni interprete impegnato nel far rivivere a memoria uno spartito; anche e soprattutto perchè lo stesso realizzarsi della musica nel tempo, il suo gioco di rimandi, allusioni, ripetizioni, elaborazioni, non è altro che una mnemotecnica particolarmente efficace per contemplare in un presente sincronico un materiale sonoro esposto diacronicamente6. A maggior ragione, ci colpiscono e ci emozionano brani come le di Liszt, musica che appare e scompare, indugia, si ferma, poi riprende, senza alcuna logica discorsiva, come gesti sonori compiuti in stato di ipnosi, ombre esangui di Valzer ammiccanti a un che di già inteso ma incapaci di trovare espressione compiuta, con l’effetto di un déjà vu che insieme c'intriga e ci lascia nell'inquietudine. O forse è vero il contrario, e anzi è la musica in sé, qualunque musica, ad esprimere l'oblio, o per lo meno a essere in grado di arrecarlo, come una droga oppiacea il cui principio attivo è una Bellezza che obbliga a non avere altro pensiero al di fuori della sua contemplazione. Questa possibile, cercata e temuta a un tempo, “narcosi estetica” è il senso del Lied Lorelei, in cui Heine, sotto l'immagine della “favola dei tempi antichi” della sirena Lorelei che induce col suo canto i marinai del Reno al naufragio, ci illustra, perfettamente assecondato dalle ambigue7 sonorità lisztiane, le tentazioni e i pericoli di una art pour l'art che divenga cura esclusiva nell'esistenza di estenuate, ipersensibili anime d'artista.



Sicuramente un dono, se ci libera dall'infelicità del passato; ma quando l’oblio induce a negare la realtà del presente il dono diviene insidioso, un sintomo nevrotico di quanto rimosso dalla coscienza. Nel Lied Allerseelen, felice connubio tra la poesia di Hermann von Gilm e la musica di Richard Strauss, le nostalgiche rimembranze di un giorno dei morti assumono i tratti di una allucinazione isterica, in cui la presenza della persona amata e scomparsa è evocata da ogni minimo dettaglio, il profumo delle resede, il colore degli aster, il premere complice di una mano sull'altra, e imposta alla nostra emotività dall'armonia straussiana, le cui successioni ora arcane, ora veementi conducono a una perorazione di tale slancio retorico da annichilire qualunque dubbio riguardo alla realtà di quanto rappresentato. Stesso discorso per il Lied Morgen, nel quale però Strauss, su versi questa volta di John Henry Mackay, propone come rimedio all'infelicità del presente non più un fideistico “qui ed ora”, bensì un domani immaginifico in cui una cullante, nirvanica melodia strumentale viene contrappuntata dalla estatica, spesso monotona (nel senso letterale di “su un'unica nota”) recitazione della voce cantante. Zueignung (il testo è di nuovo di von Gilm), che conclude il possente gruppetto di tre Lieder straussiani impaginati per questa occasione, ha carattere diverso, ma giustifica la sua robusta presenza con il titolo, una accorata “Dedica” da noi rivolta all'amico che ci manca e ci mancherà per sempre.

Ma concludere il nostro percorso musicale tra memoria e oblio con la pur focosa gravità di Richard Strauss poco sarebbe piaciuto a Claudio, spirito ironico e disincantato quant’altri mai. Preferiamo dunque suggellare il concerto con il mirabile equilibrio della musica di Mozart. Si è già accennato alla capacità della Forma di sublimare, risolvendoli in bellezza, quei moti dell'animo la cui intensità ci sarebbe insopportabile. E gli esempi migliori di ciò li troviamo senz’altro in quella vera età dell'oro che fu il classicismo musicale, perfetta fusione tra immediata comprensibilità del linguaggio, dovizia di contenuti intellettuali ed emotivi e, aspetto non meno importante, costante attenzione alle ragioni di un sano edonismo. In più, Mozart è sempre e comunque una medicina per il nostro animo, come appurato da seri e approfonditi studi di musicoterapia (“effetto Mozart” ha chiamato l'efficacia della musica del salisburghese per la cura delle patologie nervose, e più in generale per potenziare le facoltà creative della mente nell'infanzia, il medico-musicofilo Alfred Tomatis8), e l'Aria da concerto con pianoforte obbligato , di sfolgorante, olimpica bellezza, è una rappresentazione illuministicamente serena e didascalica delle emozioni multiformi e ambivalenti che il distacco da una persona cara suscita in noi. L'Aria fu scritta per la cantante Anna Selina “Nancy” Storace, le cui virtù non solo musicali pare suscitassero in Mozart i più appassionati slanci. La prima esecuzione, con la dedicataria protagonista e Wolfy al pianoforte, ebbe luogo a Vienna il 23 febbraio 1787, dopo di che Nancy partì per Londra e Amadeus, che sarebbe morto quattro anni più tardi, non la rivide mai più. Mai più...ma sarà vero? Forse, chissà dove, chissà quando, ci si rivedrà, o vagando tra gli asfodeli, o scorazzando per i campi elisi (ma non lacrimando nel Tartaro, s'intende). Forse basta smettere di sillogizzare, e immaginare invece che da luoghi indefiniti e senza tempo, con un’allegria che fin che siamo qui non riusciremo mai a concepire, un coro di voci finalmente libere da preoccupazioni ci stia rivolgendo le spensierate note dei Beatles: “I don't know why/you say goodbye, I say hello!”9

Luca Schieppati



1 “The rest is silence”, W. Shakespeare, Hamlet, V,2. Sono le ultime parole pronunciate da Amleto.

2 Così il librettista Nahum Tate anglicizzò la virgiliana Anna.

3 Sulla storia della mnemotecnica vedi, in particolare: F. Yates: L'Arte della Memoria (Einaudi, 1966)

4 “Il nome di Lampe va assolutamente dimenticato”, appunto scritto da Kant per se stesso negli ultimi anni della sua vita in seguito a un litigio con il domestico Lampe; su questo episodio, così come sul Temistocle plutarchiano citato poco prima, vedi di Weinrich: “Lete, arte e critica dell'Oblio” (Il Mulino,1999)

5 Cfr. al riguardo U. Eco, il capitolo “La vertigine del labirinto e l'Ars Oblivionalis” in “Dall'albero al labirinto” (Bompiani, 2007); un saggio di Eco sulla letotecnica era già apparso nel 1987 sulla rivista KOS), dove si nega, con solidissimi argomenti logici, la possibilità di una vera “Ars oblivionalis”; e vedi anche la confutazione, dotta ed elegante ma forse meno convincente, di H. Weinrich nel già citato “Lete , arte e critica dell'oblio”

6 “La musica è una macchina per sopprimere il tempo”, secondo la bellissima definizione di C. Lévi-Strauss ne “Il crudo e il cotto” (Il Saggiatore, 1966)

7 Vien da dire tristaneggianti; ma il Tristan è del 1859, Lorelei del 1856, così che casomai è Wagner a esser loreleizzante…

8 Cfr. A. Tomatis, Perchè Mozart? Ibis, 1991

9 “Non capisco perchè tu dici addio; io dico ciao!” Lennon/McCartney, Hello, goodbye! 1967